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San Sabino e San Romolo

I Santi Patroni Sabino Vescovo e Romolo Diacono

 

 

SAN SABINO VESCOVO

Successore del vescovo Timoteo, che nel 499 aveva partecipato al sinodo generale celebrato a Roma, schierandosi a favore del Papa S. Simmaco contro l’antipapa Lorenzo, fu S. Sabino che coprì la cattedra di Avellino nel tempo di Teodorico. Del Patrono di Atripalda mancano atti veri e propri per cui i pp. Bollandisti s’impigliano anch’essi nella fitta rete di ipotesi e supposizioni per poter identificare nettamente la figura di S. Sabino e definirne la patria.

Non trova credito, infatti, presso gli storici la favola nata dall’astiosa polemica del clero atripaldese contro quello di Avellino, coinvolgendo anche l’intera popolazione, che Sabino sia da identificare con l’omonimo santo vescovo di Canosa, morto durante un viaggio e sepolto ad Atripalda. D’altronde chi legge attentamente gli atti del Sabino vescovo di Canosa, facilmente comprende che non è possibile confonderlo ed identificarlo con il nostro.

Restano, inoltre, ben fermi due punti che dimostrano abbondantemente l’origine avellinese del nostro S. Sabino: l’espressione sedes reparata dell’epigrafe posta sulla sua tomba e che allude senza dubbio od al restauro dello Specus Martyrum del quale egli era molto devoto, od alla riorganizzazione della sede vescovile avellinese, ed ad una forte opera evangelizzatrice e di ripresa della vita cristiana dopo uno sconvolgimento sociale di grande portata; e l’altra espressione dell’epigrafe di S. Romolo cuncta patria, con la quale evidentemente si vuole alludere ad Avellino. Volendo, possono riscontrarsi altri documenti a favore dell’origine avellinese di S. Sabino. Infatti, nelle più antiche epigrafi si accenna alla famiglia dei “Luccei Sabini”, come ad una delle principali e tra le più antiche della colonia.

Sabino nacque probabilmente tra gli anni 440 e 460 d.C. nel seno della famiglia che discendeva da Publio Catino Sabino, inviato come “legato militare di Cesare Augusto” a sovrintendere al processo di romanizzazione del territorio abellinate.

Dai genitori Sabino dovette ricevere non solo il dono della vita cristiana, ma anche una profonda e solida formazione spirituale che lo plasmò all’amore di Dio e del prossimo, virtù che debbono risplendere in ogni figlio di Dio e che certamente hanno brillato nel nostro Santo, come si evince dall’elogio inciso dai suoi contemporanei sulla pietra del suo sarcofago.

Appartenendo ad una famiglia di nobile casato, il fanciullo dovette ben presto essere avviato agli studi classici, acquisendo una profonda cultura. La testimonianza di vita cristiana dei genitori, la loro apertura ai bisogni degli altri, la pratica dell’onestà e della giustizia, la forza d’animo nell’affrontare le difficoltà della vita, si stamparono profondamente nell’animo di Sabino e lo aprirono sempre più ai valori del cristianesimo nel servizio a Dio ed al prossimo. Il contatto con la realtà sociale e con le miserie degli uomini del suo tempo fecero maturare in lui anche la vocazione ad abbracciare la vita sacerdotale per consacrarsi totalmente al ministero dell’evangelizzazione delle popolazioni irpine non ancora completamente cristianizzate.

Col progredire degli anni, Sabino diventa sempre più “la fiaccola posta in alto sul candeliere per dare luce a coloro che sono nella casa”; la sua fama si diffonde anche oltre i confini dell’Irpinia ed egli viene elevato alla dignità episcopale e preposto alla guida della “Sancta Ecclesia Abellinensis”. Quanti anni abbia retto la Chiesa avellinese non sappiamo; dalla epigrafe apposta sul suo sepolcro sappiamo però che in tale missione egli dispiegò il meglio delle sue energie “facendosi tutto a tutti, pur di guadagnare ad ogni costo alcuni”, come S. Paolo affermava di se stesso nella lettera ai Tessalonicesi. In un periodo molto difficile della storia d’Italia, sconvolta dalle cosiddette “invasioni barbariche”, nella latitanza dell’autorità civile, nello sbandamento socio religioso delle popolazioni, Sabino, come in genere tutti gli altri vescovi, dovette compiere opera di supplenza anche civile, unendo al ministero episcopale l’esercizio del potere politico, amministrativo e giudiziario, per guidare le popolazioni al superamento di quel difficile momento.

E’ così che, quando verso il 520 lascia questo mondo per incontrarsi con il volto glorioso di Cristo nella gioia della Patria celeste, i fedeli ne tramandano ai posteri la memoria, dandogli sepoltura nello Specus Martyrum “cum Sanctis sociatus” e facendo incidere sul sarcofago riutilizzato quei meravigliosi distici che tutti dovremmo conoscere e meditare. Se di S. Sabino non abbiamo Atti, basta dare uno sguardo all’epigrafe che i contemporanei vollero incidere a memoria perenne sulla sua tomba, basta comprendere lo spirito di quei distici elegiaci che si svolgono in un ritmo di religiosa solennità per apprezzare la grandezza e la santità della figura del vescovo Sabino. Questa epigrafe, che è l’elogio più eloquente che di lui si possa fare, insieme all’altra di S. Romolo, costituisce uno dei più gloriosi monumenti che si possano segnare nei fasti della Chiesa Avellinese. L’epigrafe, come anche l’altra di S. Romolo, porta per ciascun lato incisi due candelabri ardenti come si usò presso i popoli della Campania e dell’Africa ed è stata attribuita da G. B. De Rossi quasi al secolo VI.

Il sarcofago di epoca romana, adattato e riutilizzato, è alto metri 0,97, lungo 2,19; i lati sono larghi metri 1 e ciascuno reca scolpita una bella figura di animale alato. La faccia posteriore presentava figure in bassorilievo, che, per essere state scalpellate, ora non offrono che le sole linee di contorno.

sarcofagoSanSabino

Sulla facciata anteriore è incisa in distici elegiaci la seguente iscrizione,che tradotta dal latino in italiano, abbiamo: “Una coscienza santa non può morire, una volontà intemerata non può mai finire insieme al corpo, perciò tu, o sacerdote(vescovo), dopo la morte vivi ancora in questo mondo per i tuoi meriti e nessun sepolcro può tenere chiusa la gloria ( che ti sei guadagnato) . Tu assicuravi regolarmente un aiuto ai cittadini e sempre un soccorso ai poveri. Retto nel sentimento e nel pensiero ( sei stato) fautore della giustizia e difensore della morale cristiana. Non ti sei mai compiaciuto degli intrighi e delle astuzie. Hai ritenuto vile quello che è terreno ( il mondo) per cercare di impadronirti delle cose del cielo e così Dio è stato il tuo solo guadagno giorno per giorno. Occupandoti del culto divino giammai lo hai lasciato decadere ( ? ). In tal modo hai raggiunto il premio adeguato alla tua fede. Sei stato affabile, amato ( da tutti), umile anche quando occupavi l’alta dignità ( episcopale).

La tua mano era sempre piena ( ricca) ed aperta a tutti. Lo attesta, o vescovo Sabino, la chiesa ( avellinese) infrancata e resa illustre dalla guida del suo insigne rappresentante”.

In questa epigrafe vengono messe a rilievo le seguenti qualità, proprie del pastore, che si sono fatte notare in quel momento storico difficilissimo: aiuto ai cittadini e soccorso ai poveri retto, giusto, virtuoso contrario agli intrighi, religiosissimo difensore di ciò che è sacro, uomo vicino a tutti e largo nel dare, la patria gli è debitrice di aver ritrovato per mezzo di lui la coesione e la notorietà.

L’episcopato di San Sabino può essere inserito o prima o dopo quello di Timoteo e cioè o nella seconda metà del V secolo o nella prima metà del VI. Neppure l’epigrafe può risolvere tale incertezza. Dall’epigrafe si evince che San Sabino ricoprì un ruolo di prestigio nella città esercitando anche l’incarico di “giudice” ( civibus auxilium), con imparzialità ( iustitiae sector), senza farsi corrompere ( numquam furta tibi nec placuere doli) e prestandosi sempre a sollevare i più deboli ( solacia semper egenis). Fu generosissimo nel dare ai poveri cioè non solo come persona, ma soprattutto come vescovo impegnando la comunità cristiana con le sue risorse nell’assistenza ai poveri ( divis semper erat et tua larga manus).

Il vescovo conservò intatta la sua fede senza cedere agli allettamenti dottrinali ereticali che circolavano in quel secolo ( sacra colens sacrum numquam corrumpere nosti). Insomma fu un vescovo che, chiamato ad operare in tempi duri, si lasciò guidare sempre dalla fede. La chiesa avellinese riamò il suo vescovo ( comunis carus humilis) e, corrispondendo generosamente alle sue premure, si mise bene in luce nella regione ( sedes reparata…auctoris clari lucida facta sui). Un tale impegno di servizio cristiano non creò nessun distacco col popolo ( humilis dum alta teneris), anzi lo conquistò come avvenne per il diacono Romolo.

Perciò anche se noi non conosciamo quasi niente del vescovo Sabino, possiamo supporre di lui tante cose confortati dall’elogio che gli ha rivolto il popolo avellinese incidendone le parole sulla pietra perché fossero note a tutti. Anche noi restiamo attenti e pensosi nel leggere, forse perché gli uomini davvero santi non si incontrano con frequenza. Siccome il loro ideale coincide col nostro, essi non sono uomini del passato, ma sono nostri contemporanei, modelli da prendere ad imitare sul serio anche dopo quindici secoli.

Come gia’ detto, il santo vescovo Sabino alla sua morte trovo’ sepoltura nello Specus Martirum, ove erano stati sepolti Ippolisto e i suoi Compagni. Nel 1588, il 1° maggio fu fatta la ricognizione solenne dele sue ossa da Marcantonio De Canditiis di Nola, vicario generale del vescovo di Avellino Pietrantonio Vicedomini, che si trovava allora a Roma,vicegerente del Cardinale Rusticucci.

Il suo Corpo allora fu posto nel coro della chiesa superiore. Il 16 settembre 1612, finiti i lavori di sistemazione, le Sacre Reliquie furono riportate nella cripta e il vescovo Mons. Muzio Cinquini, per perpetuare il ricordo di quella tradizione, ordino’ che il 16 settembre di ogni anno si celebrasse solenne festivita’ in onore del Santo Patrono. Nel 1728 il sarcofago con i sacri resti trovo’ decorosa sede nella cappella che ora si vede. Il 4 settembre 1996, per permettere i lavori di ristrutturazione e restauro dello Specus gravemente danneggiato dal terremoto del 23 novembre 1980, si è proceduto alla ricognizione ed alla traslazione in luogo più decoroso dei resti mortali del Santo.

ossa_1700

In questa occasione si è potuto accertare che S.Sabino doveva essere anche fisicamente un uomo alto e maestoso. La sua statua doveva essere tra il metro e ottanta e il metro e novanta. Nella ricognizione del 1612 il capo del Santo fu separato dal resto delle reliquie e inserito nel mezzo busto d’argento, opera di un argentiere napoletano del secolo XVII. La barba fluente, il libro su cui poggia un’ampolla e il pastorale in una mano, la mitria, sono le insegne e il simbolo del suo mistero mentre il capo leggermente inclinato sulla persona grave di anni, la destra sollevata a benedire, lo fanno sempre più riconoscere come il padre che lieto e presente in mezzo ai figli ricolmandoli di speciali favori.

 

SAN ROMOLO DIACONO

Non si può pensare e festeggiare S. Sabino di Atripalda senza fare riferimento al suo fedele diacono Romolo. Anche per questosanto le uniche notizie ci vengono dalla bella epigrafe apposta sul suo sepolcro.

La lastra di marmo con l’epigrafe misura m. 0,65 in altezza e m. 1,58 in larghezza. Effettivamente chiudeva uno “stretto sepolcro scavato nella parete tufacea o di arenaria”. Nella sistemazione avvenuta in epoca imprecisata il corpo esumato fu messo in un loculo in mura tura insieme a due altri corpi. Difatti le sue ossa nella ricognizione canonica del 1887 , sia dalla descrizione del Galante e sia dalla fotografia che ne fu fatta, furono rinvenute ammucchiate distintamente nell’angolo destro (di chi guarda) e in due altri cumuli le ossa degli altri martiri (o meno).

Tale nuova sistemazione, aveva bisogno di un segno di riconoscimento e perciò gli fu posto accanto una coppa di turibolo, considerata una insegna propria del diacono. Il candeliere potrebbe invece o essere un segno generico o un attributo del ministero liturgico svolto da uno o da tutti e due gli altri inumati.

Comunque penso che non sia stata affatto la sepoltura originaria e inviolata quella che fu scoperta nel 1887. Si spiega così come, ampliando la sepoltura, si sia voluto renderla all’esterno più simile a quella del vescovo Sabino che trovavasi dirimpetto ampliandone la facciata con l’aggiunta di un pezzo di marmo alto cm. 65 e largo cm. 50 utilizzando una epigrafe meno importante. La lapide presenta rotture causate dal crollo della volta della cripta, avvenuto la notte del 26 dicembre 1635, in seguito alla caduta della tribuna del tempio superiore.

sarcofagoSanRomolo

Conviene riportare qui l’epigrafe apposta sul suo sepolcro per poter ricavare qualche riflessione che ci aiuti a conoscere e lumeggiare la personalità anche di questo Santo.

Anche di questa epigrafe riportiamo la traduzione di Mons.Nicola Gambino dal libro citato: “Ricorda che … un gruppo di Martiri ha dato la vita per la libertà della santa Chiesa Avellinese,(AVELLIN01990, PAG. 25):

“Guarda lo stretto sepolcro scavato nella roccia, esso è la dimora del diacono Romolo, che ora ha raggiunto il regno dei cieli. Chi mai potrebbe senza lacrime (= senza commuoversi) raccontare la sua morte?

Per amore verso il suo santo vescovo Sabino abbracciò con animo schietto la povertà di Cristo. Tutta la città può testimoniare con quali preghiere e con quali gemiti egli (sostasse) davanti allo specus martyrum affinché non rimanesse privo della compagnia del maestro. La sua fede lo ha unito a Cristo, ottenendo ora agevolmente quello che così spesso ha domandato) …

Gran parte del frasario di questa epigrafe è preso dall’elogio e dall’epitaffio di santa Paola matrona romana composto da san Girolamo.

Però questo non va inteso come una pura esercitazione letteraria, ma è una scelta oculata e motivata dalle frasi per puntualizzare alcuni aspetti della vita del santo diacono. Si mette in evidenza la sua santa morte dopo una vita esemplare.

Egli aveva trovato nel vescovo Sabino il suo maestro, cioè colui che gli aveva fatto maturare la vocazione di seguire Cristo nella povertà evangelica. Puntualizzare tale aspetto aveva un significato preciso. Il diacono era l’amministratore del suo vescovo. Ma Romolo non profittò di questa carica per sé, anzi aveva imparato dal suo vescovo a donare a tutti. Compì il servizio dei poveri con tale distacco dalla ricchezza e con tutta la gioia di donare che la comunità cristiana pianse la sua morte (quis enim possit siccis oculis eius narrare mortem). La comunità cristiana riconobbe nel diacono Romolo il grande amore per il suo vescovo Sabino, modello di vita cristiana (magister) per l’esempio e la fede e padre per l’affetto che gli portava. Il popolo (“cuncta patria”) notò la preghiera assidua davanti alla tomba del vescovo e ne rimase edificato (“testis est)

L’iscrizione è l’unica fonte certa che in quel posto erano seppelliti diversi martiri e non solo uno come può far sospettare il nome di S. Ippolisto preso successivamente dalla chiesa ivi costruita.

L’incisione poi delle parole presenta delle ripetizioni, ripensamenti e qualche errore facilmente rilevabile perché i lapicidi non necessariamente erano delle persone dotte”. (GAMBINO, o.c. PAG. 27-28).

La Storia è stata tratta da un opuscolo del 1° maggio1998 del Parroco Sac. Don Antonio Testa

Per scaricare l’intero opuscolo clicca qui