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San Ippolisto

San Ippolisto Martire

S.ippolisto

Sino a pochi decenni or sono la festa del glorioso martire S. Ippolisto si celebrava in tutta la diocesi di Avellino nel primo di maggio, festività questa secolare, a cui seguiva quella degli altri Santi Martiri nella domenica immediatamente successiva, con l’elogio del martirologio, l’officio e la messa propria.

In Atripalda, soltanto S. Ippolisto portava il rito doppio di prima classe con ottava, e gli altri Santi Martiri il rito doppio di seconda classe. Mentre in tutto l’impero romano ribollivano le persecuzioni contro i propagatori della fede cristiana, nasceva verso la metà del secolo terzo in Antiochia (secondo altri nato ad Avellino da genitori antiochieni) il nostro Ippolisto, discendente da famiglia nobile e, sin dalla più tenera età fu affidato ad un sacerdote cristiano, il celebre grammatico Babila.

Il suo ardente desiderio di propagare la fede di Cristo aumentò ancor più, quando il proprio maestro fu martirizzato sotto i suoi occhi. Educato alla cultura classica ed alla fede, Ippolisto, dopo anni di vita e di preghiere e di mille mortificazioni del suo corpo divenne sacerdote e la sua passione per l’apostolato lo portò a girovagare per il mondo, finchè non approdò nella città di Abellinum (l’attuale Atripalda) dove già si era costituita una colonia di orientali trasferiti dall’imperatore Alessandro Severo.

Suo scopo ben preciso fu quello di aprire alla vera luce gli occhi ciechi dall’idolatria delle genti della nostra terra, la quale doveva poi essere teatro del suo martirio, con l’epilogo aureolato della somma gloria della santità. Nel predicare la fede in Cristo, il Signore lo favoriva confermando le sue parole con molti miracoli: guariva infermi, ridava la vista ai ciechi, raddrizzava gli storpi, cacciava i demoni dal corpo degli ossessi. Infatti dopo questi miracoli ottenne una fama straordinaria e di conseguenza una falange di seguaci che generarono negli animi tenebrosi dei senatori, governanti la città di Abellinum, la decisione di arrestare il nostro sacerdote.

Correva in quei giorni, secondo la tradizione pagana, l’annuale festa dedicata a Giove Capitolino, al quale era stato costruito un tempio sul monte Toppolo (adesso pertinenza di Manocalzati). Vi si era radunata una grande moltitudine di persone per offrire sacrifici intorno all’ara sacrificale ma Ippolisto riuscì a convincere molti di loro a seguire il vero Dio. Alcuni senatori, di cui un antichissimo martirologio ci riporta anche i nomi, e cioè Quintiano, Anselmo e Piereo, si scagliarono contro di lui percuotendolo. Il flagello (strumento terribile) che fu usato in quella circostanza per martoriare il corpo, ma che non sfiorò minimamente lo spirito del martire, fu quello stesso che campeggia su un antico stemma visibile sino a pochi anni fa sul portale della chiesa di S. Ippolisto, per cui i nostri religiosi al tempo della sua istallazione, vollero identificarlo col martirio del Santo, adottandolo a proprio simbolo.

Alla festa di Giove sopraggiunse quella di Diana, il cui tempio si ergeva sul vertice del monte Tripaldo (castiello) e Ippolisto non mancò di intervenire per rimproverare quella moltitudine della loro cecità. Moltissimi lo seguirono fuori dal tempio il quale di lì a poco crollò uccidendo diversi pagani. Questo evento diede luogo alla conversione di moltissime persone, inasprendo ancor di più l’odio dei senatori pagani. Per un po’ di tempo Ippolisto, esortato dai fedeli, si rifugiò nel Sannio Irpino e precisamente a Dentecane e Benevento, dove probabilmente conobbe anche S. Gennaro ed il suo compatriota S. Modestino.

Il suo instancabile zelo nel comunicare il messaggio evangelico, lo riportò nel 303 ad Abellinum, proprio in occasione della grande festa di Giove che si svolgeva il primo di maggio. Tutto era pronto per sacrificare un toro dalle corna appositamente dorate. Musici, suonatori ed ancelle danzanti, intrattenevano il popolo accorso. L’ardente apostolo non riuscì a trattenere la sua ira e con parole infuocate, nonostante il grave pericolo incombente, predicò il suo Dio morto crocifisso. L’inaspettato tuonare del nostro glorioso martire ferì altamente i sacerdoti e i senatori i quali ordinarono di trascinarlo a viva forza ai piedi di Giove per costringerlo ad adorarlo.

Il pontefice Beatillo gli porse l’incensiere per onorare Giove, ma il martire in segno di spregio lo scaraventò sull’idolo frantumandolo. Per questo gesto fu coperto di sputi e condannato a morte. Prima di dare atto alla sentenza fu tentata l’ultima risorsa (comune nei processi contro i cristiani), cioè la tortura col famoso “Flagellum” per spingere il nostro eroe all’apostasia; ma la fede dell’uomo di Dio, incrollabile, non vacillò un istante sotto la crudele flagellazione, per cui i senatori, vieppiù adirati, per far scempio più feroce, ordinarono che fosse legato alla coda del toro che doveva essere sacrificato e che il suo corpo restasse preda degli avvoltoi e dei cani. Il toro aizzato con torce infiammate, corse imbizzarrito, giù per il crinale del colle, trascinando e dilaniando lungo il pendio sassoso e cosparso di rovi spinosi, quel povero corpo disarticolato e sanguinolento, ormai privo di vita, ed infine sulle rive del fiume Sabato i carnefici gli mozzarono la testa, lasciandone il martoriato corpo insepolto.

Dopo due giorni, due nobili donne convertite, Massimilla e Lucrezia, poi martirizzate, notte tempo raccolsero in candidi lini i resti delle sue carni e le zolle bagnate del suo sangue e lo riposero in una grotta, ora chiamata Specus dei Martiri. Al suddetto martirio seguì quello non meno toccante del senatore Quinziano da tempo convertito da S. Ippolisto. Per il rifiuto posto alla condanna del martire fu condannato ad essere decapitato; i suoi figli Ireneo e Crescenzo di dieci e sette anni si aggrapparono al padre nella speranza di impietosire i carnefici, ma anche loro furono trafitti a colpi di lancia.

Altri generosi eroi colsero la palma del martirio e i loro nomi si leggevano nello Specus in un affresco del periodo bizantino (poi perduto) riportati nel secolo XIII dal vescovo di Avellino Ruggiero: Anastasio, Firmio, Eustachio, Giustino, Firmiano, Ignazio, Secondino, Eusebio, Querulo, due Fabii, due Procoli, Crescenzo, Bonifacio, Vitale.

Il corpo di S. Ippolisto a conferma del suo martirio, venne scoperto nel 1629 al di sotto del famoso mosaico (perduto per tale ricerca) tra i sepolcri di S. Sabino e di S. Romolo. Sotto si ritrovò finalmente il corpo del martire con il busto separato dalla testa a cui era legato ancora un mozzicone della fune intrisa di sangue, con la quale era stato legato al toro.